Lasciamoci sorprendere dalla bellezza, anche nella malattia

Lasciamoci sorprendere dalla bellezza, anche nella malattia

Presentiamo una sintesi dell’incontro con Maurizio Bosio, medico e scrittore, autore del libro La Bellezza possibile e con i genitori e terapeuti dell’Associazione Eumenidi, avvenuto ad Ascona Teatro San Materno il 13 ottobre 2012. La Compagnia giovani di Tiziana Amaboldi ha accompagnato la presentazione con estratti dello spettacolo Frammenti di carta, Brivido tra sogno e realtà
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Tre danzatrici leggono la “presentazione” dell’anoressia
GRETA– “Mi presento, sono Greta, ma posso essere Giulia, Elisa, Eleonora, scegliete voi il nome.
Mi piacciono l’odore dell’erba appena tagliata, il rumore del vento tra gli alberi, fare il bagno nel mare, gli abbracci.
Mi piace far fare i compiti a mio fratello…
Le mie giornate si dividono in buone, medie e meno che medie; sono sempre in compagnia di due amiche che si sovrappongano a secondo delle giornate: una è la malattia…”.

ELVIRA (insinuante) “Ciascuno di voi mi conosce, credo: sono una tigre che ti assale alle spalle, sono uno mano fredda che ti stringe il cuore e che ti toglie il fiato, sono una strega vestita da fata… Ma dimmi un po’, cara, come sono le giornate che passi assieme a me?”

GRETA– Le giornate negative hanno la forma di un quadrato, e quelle peggiori sono un quadrato circoscritto da un altro quadrato”.

ELVIRA. “E di che colore sono?”

GRETA– “Hanno il colore del lutto. Sono nere e viola, non c’è speranza, non vedo altro, non sento altro, ci sei solo tu. Sono come sott’acqua”.

ELVIRA. “Cara, ma lei chi è?”

IRENE. “Io sono la libertà: i sapori che non gusti e i colori che non riesci a vedere. I miei abbracci non sono per una, ma per mille volte… Io ti amo per quello che sei. Raccontale, raccontale come sono le giornate assieme a me”.

GRETA. “Hanno la linea aperta come queste forme, sono vestite come questi colori: penso alla pace del rosso, alla pace del verde e del rosa… Sai, in questi giorni sono bella!”

ELVIRA (arrabbiata) “Allora?! Cosa c’è che in me non va? Non voglio dividerti con nessuno, solo me devi amare!”

IRENE (dolcemente e pacatamente) “L’amore vero non pone condizioni, io ti aspetto, sempre”.

 

Maurizio Bosio, presidente dell’Associazione Eumenidi

Le parole che abbiamo ascoltato sono il frutto di un’improvvisazione da parte di tre giovani pazienti, cui era stato richiesto di sintetizzare la loro esperienza con l’anoressia e di presentarla al gruppo degli adulti, in un’antica pieve lungo la via francigena dove annualmente si raccolgono genitori, pazienti e terapeuti che aderiscono all’Associazione Eumenidi.

Le loro parole esprimono una verità che nella sua evidenza ed intensità sfugge alla nostra percezione: tutti noi, variamente coinvolti in questo incontro, siamo protagonisti del dramma dell’esistenza. I nostri stati d’animo variano secondo gli avvenimenti come una melodia, con i suoi climax ascendenti e discendenti, i suoi lunghi silenzi e l’inevitabile termine: la morte che attende ognuno di noi e che continuamente ci interpella, conferendo alla vita una qualità drammatica e poetica. Ed è proprio tale qualità che richiede l’adesione della persona alla verità dei fatti: ad essa, alla verità senza abbellimenti, intendiamo attenerci nella nostra presentazione. In ragione della etimologia della parola greca che la significa, alezeia, cioè svelamento ma anche senza Lete, il fiume infernale che fa perdere la memoria al trapassato, la verità esige l’adesione piena alla realtà col rifiuto di perdere la memoria su ciò che eravamo e siamo: il contrario rispetto alla vita intesa come divertimento e smemoratezza, anestesia nei confronti della sofferenza e delle responsabilità che ci interpellano.

Le parole delle ragazze che abbiamo ascoltato grondano pathos perché piene di vita vera, scaturita dall’apertura alla domanda di senso che la malattia impone; esse rappresentano un buon viatico per la presentazione del libro, che vorrebbe costituire uno stimolo a vivere in prima persona l’incontro incandescente tra l’angoscia generata dalla malattia in chi la soffre direttamente ed indirettamente, e la meraviglia di fronte alla stupefacente complessità e bellezza della vita. Meraviglia che la malattia sembra talora poter congelare, ma che, come il narciso di Shakespeare, fiore che col suo nome ricorda l’anestesia del sonno e della morte, appare quando non osa volare la rondine e accoglie i venti di marzo con la bellezza.

Può apparire strano che la bellezza costituisca il leitmotiv di una riflessione sull’anoressia-bulimia. Nelle relazioni terapeutiche con i pazienti e con i loro genitori sono stato prepotentemente interrogato dalla bellezza, o per la sua assenza, quindi per antifrasi, o per la sua presenza in circostanze e modalità imprevedibili. Fenomenologicamente è naturale proporre un percorso terapeutico ai pazienti che non trascuri di evocare nel “qui e ora” le varie forme di bellezza che ora celate, ora negate, ora agognate, stanno sullo sfondo drammatico della loro esistenza, anche per la potenza oggettivante che il bello esercita sull’animo e la mente – una mente risucchiata nel vortice della chiusura dell’io che tale vortice aspira verso il nulla.

Il libro La bellezza possibile nasce dall’ascolto delle domande che i disturbi del comportamento alimentare e i correlati disturbi di personalità pongono: che cosa comunicano i pazienti con la modalità dei loro disturbi? Qual è il grado di libertà e la qualità della volontà coinvolti nei vari stadi della malattia? Che significato ha per l’esistenza della persona affrontare una malattia potenzialmente mortale? Da che cosa dipende la possibilità di uscirne, forse definitivamente? Quali sono i reali obiettivi della cura e il criterio che ne definisce il successo?

Perché la risposta alle domande sia realmente efficace ai fini della cura, non è possibile fermarsi al livello dell’interpretazione che segue all’osservazione, ma è indispensabile porsi di fronte alle persone ammalate senza pregiudizi metodologici, e ascoltare quanto verbalmente e non verbalmente esse, genitori, fratelli e sorelle hanno da dirci. Porsi di fronte al mistero di una persona, resa disarmonica e sofferente da una malattia che aggiunge mistero al mistero, significa mettersi totalmente in gioco, e percorrere con quella persona un tratto di strada la cui destinazione finale è nascosta, forse indirizzata verso un deserto emotivo e affettivo dagli oscuri confini.

La prima sezione del libro, fondamentale per comprendere i disturbi e la metodologia terapeutica ad essi applicata, che possiamo definire fenomenologica e antropologica-personalistica sotto il profilo epistemologico, presenta le storie di 15 pazienti, tredici femmine e due maschi. Sono le voci del coro la cui melodia di fondo è la sofferenza. Esse esemplificano in modo personale con le loro parole, orali e scritte, i loro disegni, talora bellissimi come quello in copertina eseguito da una quindicenne, i loro sogni, aspirazioni e disperazioni, esemplificano alcuni percorsi possibili – in termini clinici, esemplificano differenti modalità di presentazione dei disturbi del comportamento alimentare e dei disturbi di personalità in persone che li hanno vissuti come individui singoli, unici, irripetibili.

La seconda sezione affronta gli aspetti classificativi e psicopatologici dei DCA, espone considerazioni eziopatogenetiche, sia mediante la discussione dei casi presentati, sia facendo riferimento alla letteratura internazionale aggiornata ai primi mesi dell’anno corrente. Vengono evidenziati e discussi criticamente i progressi nella conoscenza dei DCA apportati dalle neuroscienze e dalla genetica, l’importanza del “sistema-famiglia”, le interpretazioni dell’anoressia-bulimia. Viene poi illustrata la modalità terapeutica utilizzata nella cura, seguendo passo dopo passo le varie fasi della malattia, sintetizzata da una meta-teoria che ho chiamata kaloiatria, dalle parole greche kalòs e iatrichè tèchne, arte medica: arte dunque indirizzata al recupero del kalòs. Il concetto di kalòs è centrale per la modalità terapeutica, perché la sua ricerca rappresenta lo scopo della cura: secondo la definizione di Pavel Florenskij “il kalòs contiene già un segno di salute, di equilibrio interiore, di armonia, di perfetta armonia esteriore e interiore. Questo si avvicina molto al concetto di interezza.” Il discorso sull’unità e rigenerazione della persona, in primis retaggio cristiano, è riecheggiato in qualche modo anche in quel campo di sperimentazione sociale che fu l’esperienza del Monte Verità di Ascona.

Nella terza sezione del libro sono presentate e affrontate quattro grandi sfide cui il terapeuta deve dare una risposta personale: perché uscire dall’anoressia? – il problema della libertà della persona ammalata. Ha senso la sofferenza che la malattia (l’anoressia-bulimia) provoca? La relazione paziente-terapeuta. Parlare dell’Oltre? – la spiritualità.

Una persona chiusa nel cerchio, o meglio nel quadrato spigoloso dell’anoressia, si pone domande di senso? I dialoghi terapeutici svelano che tali domande sono come trattenute in una zona interiore oscura, o espresse con urla o azioni violente, o male interpretate: le domande, le esigenze del cuore vanno riportate alla luce con prudenza, perché la luce abbagliante della verità può ferire occhi abituati all’oscurità: “Uscire dal cerchio/ e finalmente vivere!/ Ma io non posso, sono grassa,/ grassa, grassa e inconsistente:/ il mio nulla dentro/ mi obbliga a vivere/ con le emozioni in bocca.” Chi potrebbe definire meglio di Greta, quindici anni, l’anoressia-bulimia?

L’importanza della ricerca del significato è evidenziata dal fatto che il significato rappresenta un ideale reale che fa, modifica la realtà, con lo strumento della creatività. Ogni gesto (gesto dal latino gero, porto), ogni gesto creativo porta un significato. Ripetuti, piccoli gesti dotati di senso intelligibile portano a nuovi significati sempre più profondi, i quali attivano e plasmano i neuroni, trasformando la rigidità della mente in plasticità. Le tecniche di neuroimaging dimostrano a questo proposito gli effetti favorevoli della terapia: sia la sinaptogenesi, sia la nascita di nuovi neuroni, fatto assolutamente sorprendente.

Per essere creativo un gesto deve essere originale, ossia leggere la situazione nel qui e ora secondo delle nuove possibilità di interpretazione e di soluzione; deve portare a un atto interiore o esteriore che esista nella realtà; deve avere un contenuto ideale che lo informa. Quest’ultimo punto è fondamentale, in quanto il sé ideale, che definisco come la modalità ottimale di risposta alle domande di verità, amore e bellezza che abitano la coscienza di ognuno, informa il sé reale posto di fronte alla scelta: e la malattia è una condizione che impone delle scelte.

Il moto creativo, inteso in quest’ottica, pone il paziente in una situazione di squilibrio momentaneo per la messa in forse o la rinuncia alle false certezze della malattia: ciò lo obbliga a trovare un nuovo equilibrio in una dimensione spazio-temporale necessariamente più vasta e profonda, sino a quella estrema: l’infinito.

Chi si confronta con l’alterità irriducibile dell’infinito ha più probabilità di uscire da un soggettivismo malato, improduttivo, che avvelena la mente e l’esistenza.

Anziché crollare di fronte all’infinito, la persona impara a respirare e ad affrontare la realtà con maggior coraggio ed equilibrio, rinunciando alla zavorra del disturbo ossessivo-compulsivo-impulsivo centrato sul cibo (e non solo). Perché si attui una simile trasformazione, la persona anoressico-bulimica deve rinunciare a ogni forma di anestesia e di corazza difensiva, lasciando sgorgare la passione del cuore – l’amore, un amore di sé ordinato, che trasforma la sofferenza in pathos creativo. Deve lasciarsi aiutare nel difficile percorso del distacco dalla malattia per diventare autonoma, scoprendo il coraggio dell’umiltà. Il libro mostra che ciò è possibile.

Non ritengo appropriati i termini di successo e di insuccesso terapeutico, perché ciò che avviene nell’interiorità della persona è misterioso, e i tempi della sua realizzazione non sono sempre prevedibili. A questo proposito desidero citare il caso di Simona, conclusosi con la morte della paziente da me seguita solamente per una parte della sua malattia. Simona, come la sorella minore, era affetta dalla rara e grave sindrome di Wolfram: diabete mellito tipo 1, diabete renale, cecità e sordità progressive, frequente psicosi. Quando la conobbi aveva 16 anni, era già anoressica restrittiva grave e aveva manifestazioni tipiche della psicosi, il che significa che viveva a tratti la realtà attraverso il suo disturbo. La madre era bloccata dall’angoscia, mentre il padre riteneva che la salvezza della figlia dipendesse in primo luogo da lui. Entrambi rifiutarono qualsiasi aiuto. Probabilmente furono compiuti errori di comunicazione e di approccio alla malattia genetica, cronica e ingravescente, da parte di chi la diagnosticò – fatto questo frequente quando l’interesse è centrato sulla malattia e non sulla persona -, e i genitori non furono aiutati inizialmente a elaborare il lutto e il senso di colpa, essendo cugini di primo grado. Una tragedia, anche perché la ragazza condizionò il percorso terapeutico, di fatto rifiutando le cure proposte, o cure imposte quando la vita era in pericolo, dai numerosi terapeuti e ospedali interpellati. Il legame affettivo tra lei e il terapeuta che parla, e tra i genitori e il terapeuta che aveva indicato una strada percorribile per alleviare lo stato di angoscia e il desiderio di morte onnipresente nella ragazza, non si è mai spezzato. Simona ha esplicitato la bellezza delle sue esperienze con attività creative come la scrittura a grandi caratteri, finché l’acuità visiva lo consentì, la costruzione di manufatti, l’ascolto di storie lette da un’insegnante volontaria, l’ascolto della musica. In tali circostanze era se stessa, ragionava in modo coerente e ricco di sentimenti, si apriva a domande di senso e partecipava in qualche modo alla vita reale. Vi leggo alcune sue brevi poesie scritte a 16 anni, prima che i disturbi organici, l’anoressia e il disordine nelle cure prevalessero:

FUOCO SEMPRE VIVENTE
Fuoco. Ceneri. Fuoco sempre vivente.
Amore che brucia. Amore che muore. Ceneri generate dal fuoco.
Padre eterno e creatore.
Ceneri che riempiono uno spazio vuoto.
Uno spazio prima luminoso,
pieno d’amore,
ora buio.
Ceneri. Fuoco. Dolore.
Sempre viventi.

L’OMBRA
Eccola, dietro l’angolo,
l’ombra cupa e assassina.
Silenzio. Solo silenzio attorno, nessun fruscio o calpestio.
Non un solo rumore grave o acuto.
Ma lei c’è. Ti assale, ti perseguita.
Ogni tuo passo è un suo movimento, un assalto.
Divora tutto ciò che incontra, non lascia spazi di luce,
solo tenebra e paura.
L’ombra non dice nulla.
Non una sillaba, non un lamento.
Si nasconde nel buio, e ti ricopre.
Il suo corpo e il tuo
sono i medesimi.
Incute paura,
tace come un assassino diabolico,
muto.

 

ASCOLTAMI
Ascoltami, tu che puoi,
ascolta le mie parole.
Ascolta il motivo per cui ti parlo,
i miei desideri
perché io possa sognarli.
Ascolta ciò che voglio ma non ho,
ciò che voglio ma non posso.
Ascoltami.
Non fare altro che ascoltarmi.
Non ti chiedo fatica e sforzo:
i miei lamenti, il mio dolore
ascoltare tu puoi.
Come il mare, silenzioso:
ascolta i lamenti del suo dolore
che s’infrangono sullo scoglio.

Per entrare in una fortezza serve più eludere l’attenzione dei guardiani che cercare di sfondare la porta con un ariete. Evocare con le opportune modalità nei pazienti la possibilità che la bellezza – che è salute – si manifesti nuovamente può essere terapeutico; ritrovo questa verità nei primi versi del poema Endimione che il ventiduenne John Keats scrisse tre anni prima di morire di tubercolosi:

“Una cosa bella è una gioia per sempre:
cresce di grazia; mai passerà
nel nulla; ma sempre terrà
una silente pergola per noi, e un sonno
pieno di dolci sogni, e salute, e quieto respiro.
Perciò, ogni mattino, intrecciamo
una catena di fiori per legarci alla terra,
malgrado lo sconforto, il disumano vuoto
d’animi nobili, i giorni tristi,
le perniciose e ottenebrate vie
della nostra ricerca: sì, malgrado tutto,
una forma bella il drappo toglie
allo spirito triste. (…)”

Purtroppo non sempre si verifica il kairòs, il momento opportuno per il cambiamento. Così, come desiderava, Simona è morta di inedia nel letto, tra i suoi genitori, a 21 anni. Ai genitori ho scritto tra l’altro: “Nella sua vicenda umana un punto mi sembra determinante: la malattia non ha mai occupato il suo cuore, anche se ha sconvolto la mente e il corpo. Questa verità ha abitato i nostri incontri terapeutici.” E i suoi genitori: “Una cosa abbiamo imparato, ed è stata quella di accettare la sofferenza che ci ha permesso di ritenere la nostra adorata Simona un grandissimo e meraviglioso dono. Ci riteniamo genitori fortunati perché dalla sofferenza abbiamo saputo apprezzare e capire il vero significato della parola amare.”
La nostra Associazione si chiama Eumenidi dalla tragedia di Eschilo che riguarda le conseguenze del matricidio di Oreste, tormentato dalle Erinni, figure spesso simbolicamente avvertite anche dalle anoressiche. La tragedia si condensa nell’insegnamento: “pazei mazos”, la conoscenza attraverso la sofferenza. La persona sofferente, come ci insegna Simona, ha bisogno di ascolto ermeneutico: la cura consiste soprattutto nello starle accanto, nell’aiutarla a trarre dalle risorse schiacciate dal dolore i motivi per riscoprire e apprezzare la bellezza possibile della propria esistenza per ricominciare a vivere.
È un privilegio per me, per noi dell’Associazione, poter godere della bellezza dell’amicizia di Tiziana che ci ospita, della bellezza della danza che i giovani ci offrono, e della vostra presenza,stando in un luogo dall’architettura e dalla storia così particolari.

Testimonianza di una madre, Emilia

C’è nel mio cuore un piccolo spazio dove tengo assopiti quelli che io chiamo “i ricordi di un altro giorno” , sì, proprio nel cuore e non nella mente!
Sono i giorni del dolore e della sofferenza.
Quando tuo figlio si ammalata, il tuo cuore soffre.
All’inizio il dolore è atroce: lo sgomento e la paura ti assalgono, ti manca il respiro.
Ho vissuto questi anni in una girandola di emozioni.
Mia figlia si è ammalata di anoressia con disturbi del comportamento cinque anni fa. Aveva 14 anni.
Ricordo ancora la prima volta in cui una dottoressa mi ha dato conferma della malattia .
Ne avevo sentito parlare ma mai avrei immaginato che questa, improvvisamente, avrebbe fatto parte della nostra vita, che giorno dopo giorno si sarebbe insinuata nella nostra casa.
Non riuscivo a capire cosa fosse veramente “anoressia”, più leggevo e più mi confondevo.
Parlarne con altra gente era impossibile! Nessuno, che io sapessi, aveva questo problema.
Quante volte sola, in silenzio ho pianto, ho urlato il dolore al mio cuore!
Nell’Associazione Eumenidi guidata dal Dr. Bosio, insieme ad altri genitori ho trovato una modalità di cura umana che non mi ha esclusa, ho trovato il mio spazio vitale e qualcuno con cui condividere gli stessi problemi.
Sguardi comprensivi e amichevoli, parole che danno conforto e sostegno.
Certo, molte volte sono stata sopraffatta dallo sconforto e dalla stanchezza, ma mai ho perso la speranza, nemmeno nei momenti più bui.
Vedevo sempre in fondo al tunnel una piccola luce.
La speranza nasce dal profondo del cuore, quel cuore che seppur stanco e strapazzato, batte d’amore per mia figlia, per la sua sofferenza.
Adesso mia figlia sta meglio; le difficoltà non mancano, però e’ riuscita a riprendersi la sua vita, quella vita che l’anoressia ha cercato di “rubarle”.

Testimonianza di un padre, Claudio

Nostra figlia ha cominciato evidenziare i primi segnali legati a disturbi alimentari intorno ai 14/15 anni, manifestando inizialmente un rifiuto verso il cibo, evitando i cibi grassi, concentrandosi prevalentemente su quelli poco calorici.
Era talmente ossessionata dalla paura di acquistare peso ad ogni pasto, che consumava con estrema lentezza rimuginando su ogni boccone.
Aveva necessità di stabilire un controllo sul corpo, con forti ripercussioni psicologiche.
Questo problema cominciava a comportare depressione, un basso livello di autostima, difficoltà a mantenere relazioni sociali, sbalzi di umore e tendenza a comportamenti devianti. Evitava d’incontrare i compagni di scuola, saltando spesso le lezioni, cercando soprattutto brutte compagnie.
Come padre ho preferito girare la testa e delegare alla madre. Pensavo egoisticamente che si trattasse di un passaggio adolescenziale, legato a cambiamenti fisici che comportavano squilibri di peso.
Mascheravo il problema pensando che poi si sarebbe fisiologicamente sistemato.
Ma il lavoro personale e col terapeuta mi ha fatto aprire gli occhi e capire la gravità di quello che stava succedendo, quale sentiero tortuoso stava percorrendo. Scriveva sui muri e disegnava il suo disagio, attraverso una capacità rappresentativa che esprimeva la drammaticità che stava vivendo.
Era un grido di dolore silenzioso, che ti faceva capire che aveva un grande bisogno di aiuto.
In quei momenti ti senti impotente, non ti rendi conto fino in fondo della complessità del problema.
Cercare aiuto non significava arrendersi ma prendere coscienza che occorreva tentare un trattamento specifico per ristabilire un equilibrio nel comportamento alimentare.
La situazione aveva poi assunto un aspetto bulimico, con abbuffate seguite da vomito autoindotto, accompagnato da una eccessiva attività fisica per perdere peso, infliggendosi anche punizioni con tagli sul corpo a dimostrazione del disgusto verso se stessa.
Solo attraverso il meticoloso lavoro terapeutico ha ritrovato serenità e voglia di sviluppare la bellezza interiore, impreziosita da una forte sensibilità artistica che ritrovava libertà espressiva.
Questi problemi è opportuno trattarli sempre in tempo con metodi adeguati senza improvvisare.
La necessità di corrispondere ad un canone estetico, che premia la magrezza, che predilige un modello di bellezza femminile esaltato dalla magrezza, può avere conseguenze devastanti per molti adolescenti.
Alcune parole scritte da San Francesco hanno caratterizzato una riflessione personale collegata al significato del disturbo di mia figlia, per il suo profondo contenuto umano:

Dov’è errore che io porti la verità – Dov’è disperazione che io porti la speranza
Dov’è tristezza che io porti la gioia – Dove sono le tenebre che io porti la luce.

Anche questa semplice lettura può essere di sostegno per continuare un cammino alla ricerca della vera bellezza.

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