Incontro di Verdeto 25 giugno 2017 – Relazione

Incontro di Verdeto 25 giugno 2017 – Relazione

Verdeto, 25 giugno 2017

 

Cari Soci delle Eumenidi,

al compimento del decimo anniversario dell’Associazione riprendiamo il percorso che negli ultimi anni ci ha portato ad approfondire con uno sguardo oggettivo, ma attento ai nostri personali vissuti, tematiche quali il significato della bellezza, la potenza delle immagini che la raffigurano, il desiderio che è costitutivo della nostra natura e indirizza la nostra vita, e l’aspirazione alla felicità che richiede un orientamento e una disciplina per non raffreddarsi.

Ci siamo chiesti come possiamo vivere una vita pienamente umana, rafforzando la nostra identità personale, e abbiamo identificato come una necessità lo sviluppo delle virtù, nonostante la loro emarginazione sia nel pensiero filosofico dominante, razionalista e scettico-nichilista, sia nei costumi dei contemporanei.

Il discorso ci ha portato a dare una risposta individuale al modo con cui affrontiamo la realtà, all’uso che facciamo delle nostre risorse anche nei momenti difficili, disarmonici dell’esistenza. Ci siamo trovati d’accordo sull’importanza di “essere attenti” alla contingenza e di imparare a leggerne il senso immediato e il senso più profondo, esistenziale, la cui negazione è fonte di ansia noogena (l’ansia generata dal dubbio dell’assenza di senso della vita). Abbiamo identificato nel discernimento, inteso come la facoltà di effettuare delle scelte in conformità con le nostre esigenze profonde, la qualità necessaria per comprendere il senso degli avvenimenti della vita e il senso più specifico della circostanza che stiamo vivendo.

Il percorso, tutt’altro che facile e non privo di responsabilità, trova il suo centro nell’Io di ciascuno. Abbiamo risposto individualmente a ciò che ci definisce come Io, al “luogo” dove risiede il nucleo della persona, e alle modalità con cui l’Io si esprime nella esistenza quotidiana: modalità di apertura e confronto, o invece di chiusura e nascondimento.

Non v’è dubbio che vi siano motivi validi di sconcerto, preoccupazione o vera paura di fronte alla complessità del periodo storico che stiamo vivendo, la cui componente oggettiva abbraccia fenomeni epocali come l’accelerazione dello sviluppo tecnologico e il suo impatto ambientale, la guerra scatenata dal radicalismo islamico, l’immigrazione in Occidente, l’ideologia del gender, la crisi dei valori tradizionali sui quali si è sviluppata la nostra civiltà, per citarne solo alcuni che stanno mutando profondamente comportamenti e aspettative dell’uomo contemporaneo. La trasformazione antropologica in atto, e le minacce assai concrete che sottende, impongono agli adulti e ancor più ai giovani in formazione di acquisire conoscenze che permettano di affrontare coraggiosamente le ricadute soggettive delle situazioni ansiogene e di orientare positivamente la vita personale e di relazione.

Per voi, giovani, significa scoprire il senso eroico della vita – niente di meno! -, imparare a conoscervi per potervi prendere cura di voi stessi, imparare a conoscere l’altro uomo per prendersi cura di lui. Tutti gli avvenimenti della storia personale e comune risuonano in noi, perché come ha detto Dostoevskij, il campo di battaglia è il cuore dell’uomo.

Si torna così all’Io, ma non all’Io immaginario, del quale ci preoccupiamo di più – dice Pascal – che di nutrire l’Io vero, perché amiamo essere guardati. Ma se soffriamo nella guerra quotidiana, ci rendiamo conto che vogliamo essere amati, non guardati. Siamo potentemente richiamati alla realtà della vita e dobbiamo finalmente deporre la maschera (di cui parlammo) e chiederci come si è strutturato l’Io, come dovrebbe idealmente “nutrirsi” e in che modo e a che scopo dovrebbe agire e reagire agli avvenimenti che lo vedono protagonista.

Farsi domande di senso come queste è un esercizio puramente filosofico e sostanzialmente inutile? È troppo difficile, forse? Non bastano all’Io gli strumenti tecnologici e di divertimento per distrarsi da problemi giganteschi e in apparenza insolubili?

Se non parlasse l’inquietudine che abita ogni cuore, sarebbero le mille dipendenze e i suicidi attuati o mascherati sotto varie forme dei giovani a riproporre con forza le domande di senso.

La riflessione è resa difficile dallo spirito del tempo, distraente con il consumismo e offuscante con il fumo delle emozioni, e dalla nuova incarnazione della Ragione nella grande finanza che non ama i soggetti pensanti, ma tutto e tutti livella con il consumismo e il “politicamente corretto”. Hegel, il cui pensiero ha influenzato in modo determinante il pensiero europeo e indirettamente gli avvenimenti degli ultimi duecento anni, ha visto l’uomo come “polvere sugli stivali della Storia”.  “La Ragione – scrisse – non può eternarsi sulle ferite inflitte agli individui.

I fini particolari, infatti, si perdono nel fine universale. Nella nascita e nella morte, la Ragione vede l’opera prodotta dal lavoro universale del genere umano.”  Come non avvertire in queste parole la marcia degli eserciti napoleonici nell’Europa del suo tempo e la disumana determinazione omicida dei seguaci delle grandi ideologie del XX secolo?

Davvero l’età moderna, e quella contemporanea, post-moderna, sono contraddistinte da un autentico progresso dell’uomo? Come rileva Alain Finkielkraut (Noi, i moderni), gli Antichi distinguevano la Ragione dalla Storia, vista come un ciclo di crimini e follia, mentre per i Moderni esse sono una cosa sola. La Storia per i Moderni ha un senso che viene comunicato alla Ragione, la quale si serve della immensa massa di bisogni, desideri, interessi, opinioni, rappresentazioni, e persino del male, per effettuare il lavorio che partorirà la nuova umanità. Non c’è posto per la pietà, per le lacrime, ci dice Hegel (ma queste parole ricordano anche il messaggio di Hitler alle truppe in partenza per la guerra!), nella necessità che sostiene la marcia dell’universale, la progressiva identità del reale con l’ideale.

Spettatori di ecatombi, noi “moderni” abbiamo imparato a farci una ragione dei massacri e a sopportare la morte del prossimo.

Non c’è dunque spazio per le lacrime, per l’euristica del pianto di cui parla Victor Hugo: “Chi non piange non vede.” Guardare l’umanità come soggetto impedisce di cogliere l’aspetto ontologico dell’individuo (cioè la conoscenza dell’essere come oggetto in sé) e di tenere nel giusto conto la morte. L’aridità del cuore induce la Ragione all’errore: una Ragione che oltre al cuore, cerca di uccidere anche il ricchissimo lascito degli Antichi in nome di una ideologia crudele e anti-umana. Invece, come scrive Michelet commentando l’assassinio di Luigi d’Orleans (XV secolo), “Ogni uomo è un’umanità, una storia universale… Eppure questo essere, che conteneva un’infinita generalità, era un individuo speciale e al tempo stesso un essere unico, irripetibile, che nulla potrà sostituire. Nulla di simile prima, nulla di simile dopo: Dio non ricominerà mai. Ne verranno altri, certo; la gente, che non si stanca, porterà in vita altre persone, forse migliori, ma simili no, simili mai…”

Il nostro grande poeta Giuseppe Ungaretti, un uomo innamorato della vita, ha affrontato la tematica della morte in varie occasioni della sua vita, come nelle trincee e negli assalti della I° guerra mondiale (Soldati, in L’Allegria):

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

… in occasione della morte del suo unico figlio, in Brasile, per una peritonite (Il Dolore, 1-17):

5

Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce

Che in corsa risuonando per le stanze

Solleva dai crucci un uomo stanco? …

La terra l’ha disfatta, la protegge

Un passato di favola…

6

Ogni altra voce è un’eco che si spegne

Ora che una mi chiama

Dalle vette immortali…

7

In cielo cerco il tuo felice volto,

Ed i miei occhi in me null’altro vedano

Quando anch’essi vorrà chiudere Iddio…

8

E t’amo, e t’amo, ed è continuo schianto! …

rievocando una giovinetta morta suicida (Di persona morta divenutami cara sentendone parlare, in La terra promessa):

Si dilegui la morte

Dal muto nostro sguardo

E la violenza della nostra pena

S’acqueti per un attimo,

Nella stanza calma riapparso

Il tuo felice incedere.

Oh bellezza flessuosa, è Aprile,

E lo splendore giovane degli anni

Tu riconduci,

Con la tua mitezza,

Dove più è acre l’attesa malinconica.

Di nuovo

Dall’assorta fronte,

I tuoi pensieri che ritrovi

Fra i famigliari oggetti,

Incantano,

Ma, carezzevole, la tua parola

Rivivere già fa,

Più a fondo,

Il brevemente dolore assopito

Di chi t’amò e perdutamente

A solo amarti nel ricordo

E’ ora punito.

 

La morte del singolo individuo provoca un dolore incommensurabile e una tristezza che evocano, per antinomia, il dinamismo prorompente della vita, una vita che desideriamo ricca di sentimenti ed emozioni forti, coinvolgenti. Una vita che rifugge dal freddo razionalismo (la dea Ragione della Rivoluzione francese che ha aperto la strada agli orrori del XIX e XX secolo), e che trova nella ragione armonizzata con il cuore il centro focale dell’uomo capace di agire rettamente, di amare, di piangere quando è necessario e opportuno. Un uomo che prima di conoscere, ama, e conosce la realtà perché la ama, per quanto complessa e dolorosa essa sia.

Come si forma un tale tipo d’uomo?

L’Io si struttura facendo esperienza tramite le relazioni e la riflessione sulle azioni proprie e altrui; l’esperienza interiore dipende molto da ciò di cui l’Io si “nutre”.

Nella fase delicata e fondamentale della crescita l’uso non corretto del cellulare, del computer, delle reti sociali telematiche, occupa gran parte del tempo delle nuove generazioni, causando alterazioni cognitive, sensoriali-affettive e persino gravi dipendenze che allontano dalla vita vera. La connessione elettronica attuata in contemporanea su molte finestre aperte nel computer favorisce l’instaurarsi di relazioni superficiali e spesso false, ed espone al cyber-bullismo. La facilità con cui si reperiscono le informazioni su internet, spesso senza conoscere la serietà delle fonti, abolisce la pazienza della ricerca e dell’attesa, e obbliga a soddisfare la sollecitazione del flusso informativo presentato in modo appetibile. Esso crea bisogni artificiosi e di fatto imprigiona l’attenzione delle persone in un ambito emotivo-cognitivo sconosciuto a chi ne è escluso: i genitori. Il gruppo rock Grateful dead canta: “Avete paura dei vostri figli perché sono nati in un mondo in cui non potrete mai emigrare.” Il cyber-spazio rende inutile l’esperienza dei genitori a scopo educativo, e i nativi digitali possono ostentare la loro superiorità. Possiamo immaginare la qualità delle relazioni fra generazioni che parlano linguaggi differenti, in cui predomina l’indifferenza per il passato.

I giovani corrono il gravissimo pericolo della dissociazione fra una mente brillantemente capace di affrontare studi tecnico-scientifici, economici, normativi, ironicamente anche umanistici, e un cuore incapace di riconoscere l’umano dal disumano, la conoscenza pratica e consumistica delle cose dalla conoscenza del significato delle cose.

Un “nutrimento” ben differente viene offerto dalle esperienze della Bellezza nelle sue varie forme (comprese le relazioni umane): esse sono una strada maestra per entrare nella “vera vita” dell’essere, a meno che non prevalga l’idea che la Bellezza è un bene racchiuso in sé, senza altra funzione che quella di mostrare se stessa, così fragile da doverla difendere chiudendola in una gabbia per esperti, inutile per l’Io perché non lo può formare.

E’ quanto accaduto alla poesia, rinchiusa nella gabbia dorata dell’estetica, con la divisione del Bello dal Vero. Eppure esiste una verità del reale che non è né quello della scienza, né quello giornalistico: la creazione poetica porta nel linguaggio un modo di essere diverso, più profondo, delle cose. Purtroppo la scuola non aiuta: nell’insegnamento della Letteratura il programma prevede il trasferimento del contenuto delle opere allo studente attraverso manuali scritti dai critici, senza la possibilità – fatta l’eccezione di singoli insegnanti– di una conoscenza diretta degli Autori attraverso una lettura almeno parziale dei testi più significativi. La conseguenza è la noia, la repulsione per Autori conosciuti sommariamente attraverso nozioni morte, trasmesse secondo il punto di vista del critico, divenute oggetto di valutazione dello studente. Gli Autori invece molto avrebbero da dire riguardo la bellezza e la vita all’Io dello studente se potessero colloquiare con lui; ne è un esempio la frequentazione di D’Avenia adolescente con Leopardi, da cui è nato il saggio L’arte di essere fragili.

La Letteratura non dice come sono le cose, ma come potrebbero essere, e stimola la riflessione personale e la crescita dell’Io perché consente di sperimentare il sentimento di assoluta partecipazione con l’altro attraverso il fenomeno dell’identificazione con i personaggi, benché ne percepiamo talora, anche dolorosamente, la difficoltà dovuta ai nostri limiti e condizionamenti. Misteriosamente, quanto avviene ai personaggi o fra i personaggi, come lo sguardo intercorso fra Dante e Beatrice da cui è nata la Divina Commedia, apre in noi modi nuovi di percepire la vita e la nostra nobiltà, in misura tale da operare profondi cambiamenti.

Leggendo non si acquisisce una conoscenza tecnica, ma si fa l’esperienza dell’altro favorita dalla bellezza formale della scrittura, si ampliano i propri punti di vista con quelli dei personaggi. E’ qualcosa di simile all’esperienza che fanno i genitori con le azioni dei figli o gli insegnanti con le azioni degli studenti, perché l’altro, in Letteratura, è anche l’Io stesso, arricchito delle possibilità che la Letteratura offre.  Le grandi intuizioni, le verità abissali sull’uomo scoperte dallo scrittore d’ogni tempo superano il tempo e lo spazio della sua appartenenza: tutte hanno avuto e sempre avranno bisogno delle parole per colpire la mente e il cuore degli uomini e restare così imperiture, abitando l’Io di chi le ascolta, le accoglie e le tramanda. Una volta creato il contatto, il libro diventa un amico sincero. Esso è percepibile ai sensi, richiede attenzione e concentrazione, stimola in modo progressivo e controllabile le emozioni, ci abita e rimane se stesso perché per sua natura non può diventare oggetto di possesso di nessuno: è un dono che appartiene a tutti e a ciascun Io in modo del tutto particolare. Ben diversamente si comporta il flusso veloce e incontrollabile di immagini-parole-suoni prodotto dallo schermo del computer che impone la dittatura del presente ed esige dall’Io scelte emotive e non ponderate. La capacità intrusiva e pervasiva dei media si fonda sull’apparente protagonismo dell’Io che s’illude di acquisire notorietà e fama con l’apparire, e di arrivare a possedere informazioni, opinioni pseudo-autorevoli e una dovizia incredibile di immagini in modo intuitivo, veloce, facile.

Di fatto all’Io resta ben poco, a parte l’illusione di avere degli amici, l’impoverimento del vocabolario e l’omogeneizzazione del pensiero con quello dominante espresso dai “mi piace”.

Proprio perché l’uomo è un essere verbale, deve avere consapevolezza dell’influsso del linguaggio sulla sua mente. Il linguaggio tecnico-scientifico ha il pregio della sintesi e della coerenza della parola con un evento oggettivo descrivibile, ma non esaurisce la modalità comunicativa dell’uomo, la sua ricchezza emotiva, il suo mondo spirituale. Adattarsi a uno pseudo-scientismo nel linguaggio, fatto di sigle e anglesismi sotto l’influenza delle suggestioni pubblicitarie, aiuta forse a ignorare la “spaventosa” complessità della vita e a fingersi sicuri; ma permettere che esso plasmi l’interiorità, partendo dal presupposto che è vero solo ciò che è da noi dimostrabile e misurabile, significa impoverire l’Io, sino a disumanizzarlo a causa dell’arroganza. Dovremmo far nostro il detto di Goethe: “Le idee generali e la gran presunzione sono sempre sul punto di causare enormi danni.” A noi stessi e agli altri.

Non sempre possediamo la consapevolezza critica della realtà che viviamo, però essa ci provoca momenti di confusione, di dubbio, di disagio, nei quali si affacciano delle domande. Impariamo a dar voce alle domande, a formularle correttamente, e poi a chiamare le cose e i fenomeni con il loro nome (il che implica coraggio), a saper rinunciare alle seduzioni degli oggetti tecnologici e alla mercificazione di ciò che non è commercializzabile, come la cultura (il che richiede intelligenza e forza d’animo). La parola cultura e la parola culto derivano dal latino còlere che significa coltivare: la cultura è un lavoro personale che implica fatica, responsabilità e fedeltà, conferendo forma al “campo” coltivato – l’interiorità, a fronte degli ostacoli che la vita frappone.

Indignarsi perché le cose nel mondo non vanno per il verso giusto, secondo l’esortazione di Stèphane Hessel (Indignatevi! ADD, Torino 2011), è un modo comodo di urlare allo scandalo senza guardare alla realtà con attenzione, cultura, prudenza, misericordia.

La vita ci chiede una risposta personale, la quale dipende, come abbiamo detto, da come si è strutturato l’Io e di che cosa si “nutre”, a che cosa del mondo esterno consente l’accesso, a quale amore e a quale compagnia di amici si è legato. Poiché ogni scelta implica una responsabilità e dà forma all’Io, deve farla usando bene le sue facoltà.

Vi propongo di fornire una risposta anonima e sintetica ad alcune domande e poi di discuterle insieme, al fine di cercare le soluzioni che la nostra compagnia è in grado di offrire.

 

DOMANDE

  1. Che cosa ha contribuito maggiormente alla mia formazione?
  2. Che FORMA di bellezza (letteratura, quadri, musica, natura…) ha più influsso su di me?
  3. Per me la bellezza ha relazione con la spiritualità o ne è disgiunta?
  4. Quale attrazione (nulla – media – grande) esercita su di me la pubblicità?
  5. Quale strumento (TV, computer, libri…) uso prevalentemente per la mia cultura?
  6. In che misura (nulla – debole – forte) sento la pressione delle opinioni dei miei pari ?
  7. In che misura (nulla – debole – forte) mi preoccupano gli avvenimenti contemporanei?
  8. Trovo un collegamento fra gli avvenimenti contemporanei e la mia storia personale?
  9. Su che base prendo le decisioni ed effettuo le scelte morali?
  10. Chi influisce maggiormente sulle mie scelte e decisioni (amici, genitori etc.)?

 RISPOSTE, raccolte in gruppi di senso:

GRUPPO GIOVANI:

  1. famiglia, famiglia e amici, amici, fede, ricerca verità, affrontare ostacoli.
  2. Letteratura e natura 2, musica, arte, quadri 1
  3. Pubblicità: nulla 2, media 5, grande 0.
  4. Libri 5, computer 5, cinema 1, TV 1, relazioni 2, musica1.
  5. Nulla 0, media 1, forte5, fortissima 2.
  6. Nulla 1, debole 1, media 3, forte 2.
  7. Nessuno 0, medio 2, sì 3
  8. Famiglia 2, esperienze personali 1, altruismo 2, coscienza, fede e dovere 1.
  9.  Famiglia 3, amici 3, guide adulte 1.

GRUPPO GENITORI:

  1. Famiglia 10, cultura (letteratura 3, musica 2, teatro1), esempi/condivisione di/con altre persona 5, desiderio di conoscenza 4, esperienze di fede 2, affrontare ostacoli 2.
  2. Letteratura 5, natura 11, musica 7, danza1, quadri 3.
  3. Sì, tutti salvo un caso (esprime dubbio)
  4. Pubblicità: nulla 9, media 7, grande 0.
  5. Libri 13, computer 8, cinema 4, TV 6, relazioni 1, danza e teatro1.
  6. Nulla 1, media 1, debole 9, mediamente forte 2, forte 1.
  7. Nulla 0, debole 2, media 1, forte 12.
  8. Nessuno 1, medio 3, sì 9
  9. Famiglia 1, amore 1, altruismo 3, confronto 2, fede e dovere 1, etica 9.
  10.  Famiglia 10, Io 4.

COMMENTO

Dalle risposte dei due gruppi – dei Giovane e degli Adulti- si evince quanto segue:

  • la Famiglia viene riconosciuta, da entrambi i contesti, come fulcro dell’evento formativo; grande importanza viene inoltre attribuita, da Giovani e Adulti, alla dimensione sociale della condivisione delle esperienze con i pari; la formazione personale viene anche plasmata da moti interiori verso le virtù, che trovano  riscontro e soddisfacimento nelle forme culturali ed artistiche;
  • nonostante la considerazione di tutte le forme di Bellezza, la Natura rimane quella che più tocca ed estasia l’ anima dei partecipanti: soprattutto della parte adulta;
  • la Bellezza viene, nella maggioranza dei casi, correlata alla Spiritualità: quale canale di accesso alla trascendenza;
  • si è consapevoli di una potenziale influenza della pubblicità sulla scelta del singolo, benché essa non incida in modo particolarmente intenso né sui Ragazzi né sugli Adulti;
  • il mezzo culturale più utilizzato rimane il testo scritto: sia in forma cartacea che in quella informatizzata;
  • il gruppo dei pari incide sull’individuo in modo differente in relazione all’età anagrafica: si riscontra un ascendente inversamente proporzionale ad essa, risultando notevole fra i Giovani;
  • gli adulti esprimono rilevante preoccupazione per gli accadimenti contemporanei: fonti di insicurezze e di percepito turbamento; essi, tuttavia, non evocano totale serenità neppure tra i Giovani – generalmente più focalizzati, per natura, sul proprio mondo interiore -.
  • La riflessione collettiva depone per un condizionamento – diretto o emotivo – dei fatti globali sulla vita di ciascuno;
  • le scelte sono fondamentalmente attuate in base a valori etici; chi influisce maggiormente su esse è la famiglia  – con incidenza analoga del gruppo dei pari sui giovani -.

 

Il lavoro effettuato in gruppi separati, con discussione comunitaria, richiede un approfondimento concettuale, perché è indispensabile chiedersi quale influsso abbiano rispettivamente le emozioni e la ragione sulle nostre scelte etiche, e in che forma di etica ci riconosciamo. L’argomento evocato dalle domande viene qui ripreso in modo sintetico e senza una discussione articolata, ma può servire come traccia per una riflessione personale e per aiutare a prendere una posizione personale.

Nel periodo storico contemporaneo vengono contrapposte ragione ed emozioni, e alle emozioni e alle passioni nella vita privata viene conferito il predominio sino alla loro spettacolarizzazione, tanto che sociologicamente non si parla più di homo sapiens ma di homo sentiens: sentio, ergo sum, al posto del cogito, ergo sum di Cartesio.

L’imperativo morale è diventato: “sentire, sentire sempre, non riflettere”, perché esisterebbe solo o quasi ciò che è sentito; il motto è: “libera le tue emozioni!”.

Ne consegue l’instabilità affettiva, l’intemperanza delle passioni, la dismisura.

I media e la pubblicità esaltano il culto delle emozioni, gli educatori incontrano difficoltà quasi insormontabili nel loro compito dalle primissime età della vita. L’ebbrezza orgiastica e il nichilismo nietzscheani godono di nuova fortuna.

Come acutamente rilevato da una giovane partecipante, se si sostituisce al presente del verbo cogitare (cogito) il riflessivo (cogitor), il senso dell’esistenza si riassume nell’essere pensati, amati, da Qualcuno che costituisce il senso stesso della vita.

Di fatto, l’uomo contemporaneo cerca la libertà attraverso le emozioni, è un cercatore di emozioni. Le emozioni e le passioni sono state connotate negativamente da tanti filosofi in epoche differenti, da Seneca a Kant, perché escludono il dominio della ragione (homo compos sui, l’uomo diviene padrone di se stesso attraverso la ragione, essi sostengono).

Secondo l’emozionalismo contemporaneo le emozioni-passioni sono moti non razionali, energie non pensanti che dominano la persona. In base ai flussi e riflussi storici, sono stati considerati come predominanti nell’uomo ora la ragione, ora le emozioni-passioni, in un processo di mutua condanna o esclusione. Se il nostro scopo è acquisire l’unità della persona, l’equilibrio e la crescita interiore che si verificano in una condizione di tensione, che è l’espressione dello spirito attento e pronto al mutamento, come prima operazione dobbiamo renderci conto che l’argomento “emozioni” è molto complesso, che le semplificazioni concettuali e descrittive sono nefaste perché inducono all’errore, che occorre tempo, studio, riflessione personale, esercizio quotidiano di analisi, controllo e potenziamento delle emozioni per imparare a comprenderle nel loro significato e valore. Valore, perché le emozioni sono importantissime e costituiscono la prima modalità di conoscenza della realtà.

Dedicheremo a questo fondamentale argomento un prossimo incontro. Per ora rifuggiamo dalle esagerazioni emotive, dalla ricerca di sensazioni non evocate dalla realtà del quotidiano: siamo chiamati al riscatto dell’ordinario sullo straordinario, a saper riconoscere il miracolo che sta in ogni più piccola cosa, e quindi molto, molto, molto più in ogni singola persona. Perché allora non avere cura di sé, della propria salute-salvezza?

Essa passa attraverso il potenziamento delle emozioni, la loro liberazione dai luoghi comuni, l’imparare a sentire e l’imparare a utilizzare bene la ragione: lasciamoci illuminare per vedere meglio dentro e fuori di noi.

Al contrario, chiusi in noi stessi, soli, senza una luce costante che ci illumina e riscalda, non lo possiamo fare, e la fine non è bella:

 

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

(Salvatore Quasimodo, in Acque e Terre)

 

La vita quotidiana ci chiama continuamente ad agire, e ciò implica delle scelte che hanno una connotazione “morale”: su che base diciamo che un’azione è bene e un’altra invece è male?

Alla luce dell’atmosfera che respiriamo saremmo portati a rispondere che decidiamo emotivamente e agiamo di conseguenza le nostre inclinazioni.

In un inventario incompleto riconosciamo:

  1. l’inclinazione verso l’autoconservazione (fine in comune con tutti gli esseri);
  2. l’inclinazione verso l’unione sessuale e verso ciò che può conseguirne solitamente, cioè la trasmissione della vita (fine comune a tutti gli animali);
  3. l’inclinazione verso la convivenza con gli altri, verso la socializzazione-relazione, che può portare a esercitare l’amore (fine puramente umano);
  4. l’inclinazione verso la conoscenza della verità (fine puramente umano);
  5. l’inclinazione verso la conoscenza della verità su Dio e verso una qualche relazione con Dio stesso (fine solo umano).

Però le inclinazioni nominate sono dei beni vitali qualificati e interpretati dalla ragione: il bene dell’autoconservazione significa non solo amore spontaneo di sé ma anche autostima, senso della propria dignità; il bene della conservazione/trasmissione della vita significa inclinazione verso l’altro sesso non solo come genitalità, ma come relazione psicologica e spirituale, generazione e cura della prole etc…

Le inclinazioni non determinano dei comportamenti fissi e identici in tutti gli uomini, non producono uniformità dei comportamenti, ma equivalgono a una tendenza fondamentale strutturante. Un esempio lampante è la costante universale cura del significato umano delle relazioni sessuali e della generazione, tanto che la varietà di forme della struttura famigliare manifesta ovunque lo stesso interesse e la stessa cura.

Le inclinazioni sono gerarchizzate, dalla 1 alla 5; spetta alla ragione il compito di ordinarle e di gestirle. La ragione può comprendere correttamente come assecondare le inclinazioni e quali sono i fini-beni morali.  Come?

 

I) Esiste una capacità innata di cogliere il bene/il male in modo generico: questa modalità generica precede, secondo Aristotele, la phronesis, definita come la capacità di cogliere il bene e il male in modo concreto e particolareggiato, e se non vi fosse tale potenzialità non sarebbe possibile la phronesis.

Tommaso d’Aquino chiama sinderesi tale potenzialità: è la capacità di apprendere in modo spontaneo, per connaturalità, i principi primi della legge naturale.

Per Kant v’è una disposizione razionale naturale pensata oscuramente che precede la metafisica dei costumi.

La ragione può comprendere quali sono i beni morali in vari modi:

1)la sinderesi; 2) tramite l’educazione, le leggi, l’ethos; 3) la conoscenza pre-filosofica, oscura, in modo riflessivo; 4) la conoscenza filosofica; 5) conoscendo e consultando i phronimoi o portatori di phronesis.

I principi della legge naturale vengono colti, in sintesi, sia facendo auto-esperienza, sia dall’incontro con il mondo e le persone, sia mediante l’educazione.

II) V’è una tendenza-inclinazione della ragione verso la conoscenza della verità, per cui può apprendere i principi morali primari della legge naturale correlati ai beni/mali percepiti (fare del bene/male al prossimo, vilipendere/rispettare Dio), e da questi è in grado di ricavare i beni morali secondari (non mentire, per esempio, a partire da: non fare del male al prossimo).

III) Dopo aver esperito le inclinazioni e le attrazioni di alcuni beni ontologici, la ragione emette il giudizio pratico: “questo è un bene morale da fare, l’azione è virtuosa”. La ragion pratica trasforma i beni ontologici in beni morali attraverso il suo giudizio assiologico (di merito).  La ragione sarebbe l’Io-centro in rapporto al soggetto come Io-totalità. La ragione-coscienza avverte il senso del dovere.

IV) Quasi simultaneamente alla formulazione dei vari giudizi, la ragione pre-filosofica apprende il primo principio della ragion pratica: il bene va fatto e il male va rifuggito. Ciò è analogo all’emergere del primo principio della ragione teoretica, il principio di non contraddizione: la regione teoretica conosce l’essere e simultaneamente apprende il principio di non contraddizione.

V) Successivamente ai momenti I-IV, la ragione può apprendere la nozione antropologico-metafisica di uomo, la natura umana. Quale relazione esiste fra etica e antropologia-metafisica? Attraverso varie modalità, prima descritte, l’uomo formula giudizi pratici e ha una conoscenza etica, la quale è alla base dell’antropologia-metafisica, non vice-versa.

VI) Il bene morale – la virtù dell’uomo – è realizzare il fine della ragione-amore, che è il nucleo centrale della natura dell’uomo. La ragione giudica ciò che non deriva originariamente dalla ragione stessa, per esempio le inclinazioni, inserendolo e subordinandolo al suo proprio modo di conoscere e amare. Chi ci assicura della rettitudine delle nostre inclinazioni? O accettiamo una fiducia irrazionale al riguardo, o usiamo la ragione. La rettitudine della ragione non è definibile o conoscibile per comparazione con una regola esteriore: la sua regola è nella ragione stessa. La retta ragione è la ragione funzionante secondo la sua immanente legislazione e la sua finalità propria. Per esempio, quando la ragione dice: “è male mentire”, non esprime semplicemente una relazione oggettiva sui fatti (del tipo: “la menzogna, distruggendo la fiducia, è nociva per la società”), ma esprime una relazione (negativa) dell’azione di mentire con se stessa, in quanto la menzogna non si accorda con ciò che costituisce la legge della ragione, che è legge dell’apertura e della universalità.

VII) Esiste una progressione per l’uomo, dal parzialmente virtuoso al pienamente virtuoso se:

  • imita i phronimoi e riconosce il loro consiglio. L’imitazione è una qualità intrinseca dell’uomo e spinge a imitare gli altri; quando diventa virtuosa, acquista i caratteri della docilitas, connessa all’umiltà (che è amare la verità più di se stessi), e diviene parte della phronesis.
  • acquisisce ed esercita la phronesis;
  • fa filosofia morale. NB: non basta conoscere, anche in modo particolareggiato, come fa l’intellettualismo etico, ciò che è bene da ciò che è male, per farlo: assai spesso infatti “video meliora proboque, deteriora sequor” , pur vedendo il bene seguo il male.

VIII) L’Io è al centro dello sviluppo morale, ma senza cadere nell’individualismo e senza contrapporlo alla comunità. Anzi, l’Io sviluppa la moralità a partire dalla riflessione personale sulle regole morali della sua comunità. La dimensione inter-soggettiva dell’Io è necessaria perché solo nelle relazioni completa la sua umanità, sia epistemologicamente (venendo a conoscere se stesso), sia ontologicamente (conseguendo il proprio compimento).

 

Le azioni morali vengono valutate in terza persona dalle etiche moderne, mentre in prima persona, dalla parte dell’Io agente, dall’etica classica. Ciò significa che nel giudizio morale non basta considerare la conformità di un’azione alla norma, ma considerare la gestazione dell’azione nella interiorità dell’individuo, dare cioè rilevanza ai motivi, ai desideri, alle intenzioni. Inoltre, in opposizione al consequenzialismo che tiene conto solo delle conseguenze delle azioni e non dei motivi, bisogna tener conto dei pensieri e dei sentimenti che, di per sé, potrebbero essere moralmente sbagliati (desiderare, pensare il male per gli altri).

In terzo luogo il giudizio morale deve tener conto della situazione del soggetto, come già detto da Aristotele (soggetto lucido o sconvolto, consapevole o ignorante delle conseguenze di un atto). In quarto luogo, gli atti umani non vanno considerati isolatamente, ma nel complesso di una condotta, la quale ha uno scopo.

IX) L’etica delle virtù tiene conto dello scopo morale, il telos etico dell’agire del singolo.

Le virtù sono il fine del dovere, della norma, delle obbligazioni. Spiegano la genesi dell’azione umana moralmente eccellente, la psicologia morale dell’uomo di valore; determinano la perfezione della ragion pratica; spiegano il male morale, la colpa, il vizio.

Idealmente bisognerebbe agire, compiere un’azione, non per obbligo ma per scelta, non per puro dovere ma per intima convinzione che nell’azione compiuta ci sia un bene o per il prossimo o per se stessi (un bene spirituale, non materiale).

Questa visione presuppone un uomo a tre dimensioni, non a due dimensioni: oltre quella spaziale e quella temporale, anche quella spirituale, della profondità o dell’altezza che si perde nell’infinito. Ma l’etica consequenzialista dominante ci dice: valuta la tua azione in base alla sua conseguenza, all’esito visibile. Dobbiamo convincerci che l’esito di molte nostre azioni resta sconosciuto o è misteriosamente amplificato nel tempo e nel cuore del prossimo.

L’etica deontologica, in auge, ha un fine, rappresentato dal rispetto incondizionato della legge; sostiene che prima s’identifica il dovere, e da esso si deduce il bene. Ma non riesce a spiegare da dove l’imperativo tragga la forza obbligante, e che cosa determini il fondamento della obbligazione.

Secondo le etiche teleologiche, a partire dai Greci, è dal bene che si deduce il dovere, perché il dovere trae il suo senso dal bene che è chiamato a tutelare, è il correlato di un valore che ne costituisce il fine e lo scopo: gli imperativi morali traggono la loro forza obbligante dal loro telos (scopo) e il fondamento della obbligazione risiede solo nella correlazione a un fine-bene.

Bisogna ripristinare il concetto di telos della vita umana la quale va considerata come un tutto. Le regole morali sono necessarie ma devono essere finalizzate all’esercizio delle virtù e al conseguimento della eudaimonia (felicità). L’uomo ha bisogno di un telos per poter dare senso alle norme, e le norme hanno bisogno di un telos per avere senso.

In alcune etiche moderne l’amore fuoriesce dall’ambito dell’etica, che si dovrebbe occupare solo delle regole della giustizia relegando l’amore al privato ed escludendolo dalla considerazione morale. Alcuni deontòlogici considerano in termini di separazione il rapporto tra amore e giustizia.

Va però osservato che l’amore per l’adempimento della giustizia conduce a lottare contro ciò che la ostacola. Inoltre l’amore è bene-volenza, per cui vuole il bene dell’altro, il che corrisponde alla giustizia intesa come volere per l’altro il bene che gli spetta (bonum sui cuique tribuere).  L’amore vuole per l’altro ciò che gli è dovuto non in quanto dovuto, ma per una sollecitudine nei suoi riguardi, e vuole per l’altro anche dei beni che non gli spettano per obbligo. Se la vera giustizia è una forma d’amore, l’amore è virtuoso nel suo fare del bene se è regolato proprio dalla giustizia. La giustizia è l’architetto dell’ordo amoris, l’ordine dell’amore.

L’amore è essenziale per lo sviluppo naturale del bambino, mentre la giustizia, il dare cioè al bambino quanto gli è dovuto, ma senza amore, uccide il bambino (come nell’esperimento di Fedrico II, il quale affidò dei neonati a balie che diedero loro il necessario, ciò che è “giusto”, ma non la PAROLA e l’affetto: morirono tutti).

Anche lo sviluppo della moralità del figlio richiede che i genitori lo amino e che siano suo oggetto di ammirazione e imitazione, per potergli trasferire ideali morali, mentre le minacce e le rappresaglie non sortiscono un effetto educativo.

Molte etiche moderne non consentono che l’amicizia e l’amore esercitino atti di gratuità verso il prossimo, l’altro in quanto altro, ma ingiungono al soggetto di considerare l’altro come tramite attraverso cui si soddisfa un obbligo (nel deontologismo), o si producono le migliori conseguenze possibili (nel consequenzialismo).

 

In conclusione, l’etica che si fonda sulla persona e non sulla norma, l’etica che ha un telos, soprattutto se trascendente, forma un uomo completo, virtuoso, non solo rispettoso delle norme della convivenza. Di fronte a un “cuore” d’uomo ricco di sentimento e delle virtù che rendono grande, nobile il sentimento, ogni formalismo etico scompare: la stessa norma, pur necessaria, diventa supporto alla visione. L’uomo virtuoso è un uomo che “vede” la realtà con occhi nuovi, e perciò la comprende per quanto complessa sia, la sopporta e perfino la redime, amandola. Egli non è solo, anche se fosse condannato dai suoi simili alla solitudine, alla prigione, perché vive la vita e le relazioni con pienezza: non ha paura, ama.

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Riferimenti bibliografici (citati):

  1. Finkielkraut, Noi, i moderni, Lindau; G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Meridiani Mondadori; G. Samek Lodovici, L’emozione del bene, Vita e Pensiero; A. MacIntyre, Dopo la virtù, Armando.

One Response so far.

  1. Franca e Sergio ha detto:

    Grazie mille Dottor Bosio per il costante impegno e amore nei confronti delle ragazze e dei genitori.

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